È difficile…
Lavorare mi piace, il mio lavoro mi piace. Molto. Da qualche anno ho scelto di dedicare un po’ del mio tempo per fare anche altro.
Per la quarta volta sono tornata a San Vittore VI sesto raggio IV piano, nel reparto dei detenuti protetti per iniziare un laboratorio di scrittura terapeutica – metodo Sonia Scarpante.
Occuparsi dei sentimenti delle persone è un lavoro delicato, ci vuole tatto, umiltà e una buona dose di pazienza. Farlo all’interno di un carcere è complicato. In quel reparto, è particolarmente difficile. Parecchio. Ho imparato a non avere pregiudizi, perché la scelta è stata mia e a fatica doso le parole, perché l’impulsività fa parte del mio carattere e alla fine il mio comportamento mi dà ragione.
Ogni volta ci prefiggiamo di formare un gruppo limitato di persone, ma puntualmente qualcuno si aggiunge. Se uno si allontana, altri si affacciano, occhieggiano alla ricerca di un posto libero e lo occupano. Il mio approccio non è accondiscendente, ė alla pari di una qualsiasi persona, al di là del suo stato di libertà o di detenzione. Una volta sono stata aggredita verbalmente in malo modo da un detenuto del carcere di Bollate che mi ha accusata di avere un atteggiamento autoritario. Mi ha offesa. Non mi ha capita. Mi ha fatto sentire in pericolo per la prima volta in molti anni di lavoro in carcere. Ho giurato che non ci sarei più tornata. Che non meritava la mia attenzione, il mio tempo.
È passato un anno da quell’episodio. Il mio risentimento era verso quella persona, non verso il suo stato di detenzione. Qui sono tornata con animo propositivo, non leggero, non può esserlo in questi luoghi dove chi ti siede a fianco a pochi centimetri dalla tua pelle espira solo dolore, solitudine, frustrazione e molta rabbia.
Si procede un passo alla volta, con cautela, su un cavo sospeso nel vuoto. Il silenzio, i musi lunghi, gli sguardi torvi dei primi minuti si modellano, si plasmano man mano che il tempo scorre e le due ore si concludono in un battito di ciglia con strette di mani e arrivederci pieni di attese. Chi premette di essere disgrafico, chi dichiara di non voler scrivere e parla a stento, in silenzio allunga una mano, prende il foglio bianco, la penna e ci regala in poche righe la propria fiducia.
Il più giovane tra loro comunica attraverso i testi delle sue canzoni, la timida Sophie (transessuale non operata) scrive qualcosa da condividere col gruppo e altro che non leggerà, per il momento. Il disgrafico ha le occhiaie cerchiate, biascica che ha passato una settimana schifosa, racconta tra le lacrime di essere stato picchiato, sputato, offeso. Come si fa a sottrargli attenzione senza mortificarlo, per dare uguale spazio a tutti gli altri? Si alza, si allontana con passo sofferente, dice che deve tornare in cella a prendere la penna. Poco dopo torna. Ha un’espressione felice e un libricino tra le mani.
“Cosa è successo in due minuti che ti ha fatto cambiare umore?” Gli chiedo, osservando il suo volto che se pur deturpato da ponfi, risulta disteso, l’incarnato quasi roseo.
Il più giovane mi guarda e mi risponde: “Qui in due minuti, ti può cambiare il mondo.”
E allora ti rendi conto che sì, è difficile, ma sei sulla strada giusta.
Un grande aiuto per loro e sicuramente anche per voi . Esperienze che fanno capire e crescere. L’empatia è alla base e molte volte è difficile non giudicare o essere prevenuti nella vita di tutti i giorni, posso immaginare quando si è “dentro”!
Sì, vero, è un aiuto reciproco. Per lavorare sulle emozioni con persone in condizioni difficili è necessaria una sensibilità e un’attenzione all’ascolto che sarebbe utile usare sempre, mentre al contrario spesso ci lasciamo trascinare dall’impulsività e dall’impazienza. C’è sempre qualcosa da imparare, da chiunque… Grazie, Rudy!