Obiettivo di riflessione: quali emozioni l’emergenza sanitaria ha scatenato nell’animo delle persone? Chi ha narrato queste emozioni e chi le ha sapute raccogliere? Ecco una testimonianza di vita reale.
Raccontare le emozioni in emergenza è come ricucire un grande strappo per ricongiungere l’io alla realtà. Qualcuno saprà raccontare le paure, altre persone le ansie o il terrore di solitudine, che spesso ha incontrato negli occhi di ogni passante.
La pandemia ha catapultato tutti in un mondo surreale, bombardato da notizie discordanti. Il brusio, continuo e martellante, ha accompagnato l’interruzione delle relazioni. Le prime emozioni? Paura, rabbia, tristezza, ansia e confusione.
Nel lavoro, molte volte, ho avuto la sensazione di essere stata trasformata in una levatrice di altri tempi, quelli che erano fatti di guerra o di pace. Mi sentivo come una di quelle donne che accompagnavano la vita quando nascere profumava d’ignoto come il sopravvivere. Quante volte sono stata chiamata a ogni ora del giorno, per il solo bisogno di ricevere una parola di conforto! L’emozione di quel momento? Dolore empatico. Dopo la fine del turno di lavoro, tornavo a casa, toglievo gli abiti da ostetrica e indossavo quelli da insegnante – avendo cinque figli a casa, in didattica a distanza, da seguire – ma continuavo a rispondere al telefono a quei numeri sconosciuti che sapevo appartenere a qualche donna del paese, neo mamma o in gravidanza.
Pazienza. L’emergenza intensifica il senso di solidarietà e questa non è una percezione, ma la verità.
Nel turbinio delle emozioni provate ho avuto l’opportunità, come ostetrica di consultorio, di conoscere la sostanza del saper essere, prima ancora del saper fare. Esserci, indipendentemente dalla paura.
In uno stato di normalità, la donna in gravidanza vive, di per sé, nove mesi d’incertezze, immersa in un immaginario oltre i confini chiari della realtà, finché l’evento parto concretizza davvero il suo divenire madre. Al suo fianco, l’ostetrica dà significato alle sue emozioni, accompagnandola in un percorso nascita ben strutturato, che le garantisce un contorno di sicurezze, quando il suo stato emotivo è in costante subbuglio.
Quando un’ostetrica e una donna s’incontrano nell’emergenza, che ha spaccato la loro reciproca quotidianità, l’emozione che, per prima, le unisce è, sicuramente, l’empatia.
Il punto d’incontro è, per entrambe, un framezzo tra la normalità di prima e l’ignoto del poi, in un continuo divenire di raccomandazioni e direttive, che, contemporaneamente, separa e unisce loro ancor di più. Lì, risiedono il vero senso e il giusto significato di questa vicenda esistenziale. Da una parte, la professionalità di chi sa che la vita viene alla luce, nonostante tutto, e dall’altra ventri pieni e desiderosi di accogliere, anche in presenza di una grande paura. Un prendersi cura di sé stessi e degli altri attraverso un reciproco scambio fatto di speranza e rafforzamento di competenze per la vita.
Allora l’emergenza, causata dalla pandemia, si riflette nelle donne in attesa, sole in casa, in cerca di rassicurazione; puerpere con i loro bambini piangenti e il grande bisogno di confrontarsi, anche solo al telefono, per sentirsi dire che quello che stanno facendo è la cosa giusta; padri preoccupati di non poter regale, alle proprie compagne, il loro conforto e la loro presenza durante le ecografie o al parto, speranzosi mentre chiedono se le direttive sono cambiate e possono partecipare a quel percorso nascita importante che li sta escludendo per sicurezza.
Molti paesi, mentre vivevano la chiusura, l’allontanamento e la solitudine, si stringevano solidali, con l’ausilio della tecnologia multimediale, sotto il peso enigmatico degli eventi.
Tuttavia, l’ostetrica sa che il suo sapere è un’arte che implica necessariamente un relazionarsi. Nonostante, la nostra buona capacità di operatori sanitari di adattarsi alle situazioni, spesso sono rimasta con il dubbio di non riuscire a garantire un’assistenza adeguata. Questo accadeva ogni volta che accoglievo un pianto disperato di una neo mamma, al di là della cornetta, o le paure ricorrenti delle donne a fine gravidanza che temevano di partorire in ospedale, luogo, in quel momento, di massima concentrazione della malattia. La gravidanza riceveva priorità e il parto restava un evento naturale. Tuttavia, quando nasce una madre e un bambino è risaputo che entrambi hanno bisogno di essere circondati da un’intera comunità. Non so se il rimorso veniva dalla sensazione di non poter fare abbastanza o dal risultato incerto nonostante l’immensa buona volontà di adattare al meglio l’assistenza. E che nome possiamo dare a queste percezioni? Che emozioni posso raccontare?
Una mamma, dopo il controllo a quaranta giorni dal parto, mi disse: “E ora come faccio a cominciare questa avventura di mamma, senza poter condividere davvero con le altre mamme?”
Quante emozioni sono racchiuse in questa domanda? Sicuramente, bisogno di sicurezza, sostegno, vuoto, timore, terrore, fragilità, solitudine, preoccupazione e smarrimento.
Emozioni che sono state anche mie.
Al mattino, uscendo di casa, per raggiungere il consultorio familiare, e attraversando il mio paese deserto, dove l’immobilità sprigionava l’aroma del cambiamento, avevo l’impressione di essere una privilegiata: nessun smart working, nessuna cassa integrazione, nessuno stop. Ma, allo stesso tempo, uscire di casa voleva dire anche accettare il rischio e mettere a repentaglio la salute della mia famiglia.
Non sono stata un operatore sanitario in prima linea, come colleghi amici e amiche che hanno trascorso mesi lontani dalla propria famiglia al fine di salvaguardarla. Non ho visto persone malate, boccheggiare e sperare di sopravvivere, nessuna terapia intensiva, nessun lutto da elaborare. Ho perso, però, causa questa terribile malattia, amici che vivevano in altre regioni.
Nonostante ciò, vedevo il mio lavoro come la metafora perfetta di quello che stava accadendo: la gravidanza è qualcosa che tocca nel profondo e comincia a sconvolgere nel corpo e nella psiche per nove mesi; il bambino che si forma è come un virus che impone alla donna un adattamento nuovo se vuol mantenere il suo stato di salute. Dopo nove mesi, arriva il parto, un attimo breve e intenso, adrenalinico come una vera emergenza e, al suo termine, le persone coinvolte devono rimboccarsi le maniche e ricostruire un equilibrio nuovo.
Il coronavirus non è altro che il parto distocico di questa umanità sconvolta che cerca di ripristinare sé stessa.
Emozioni inimmaginabili e da saper gestire. Un connubio tra sanitari e cittadini, ininterrottamente destabilizzato, in un contesto di relazione nuova e impattante. Una presa di coscienza messa a dura prova dal concetto di rischio e dai numeri allarmanti, che offuscavano le rassicurazioni e le buone pratiche.
Le donne, soprattutto alla prima gravidanza, hanno paura di non capire quando arriva il momento di spingere e l’ostetrica deve fare solo una cosa: rassicurarle dicendo lo capirete, perchéè una sensazione diversa rispetto a tutte le precedenti, che viene da dentro, un’ondata da cavalcare, non da combattere. Come le emozioni, di questi mesi, scelte accuratamente; trattenute solo quelle che servivano davvero, in tutto quello che sembrava un compromesso per salvare vite. Oppure, per me ostetrica, come dimenticare un po’ la malattia e rimanere concentrata sulla vita.
Nella pandemia, la malattia ha inciso più nel corpo o nella mente?
Allora che vuol dire narrare le emozioni in emergenza? La stessa cosa che imparare a riconoscere le contrazioni e a metà travaglio sperare che tutto finisca presto nel migliore dei modi. Come le parole raccontate dall’ostetrica alla partoriente che teme di non arrivare alla fine del suo viaggio: “Coraggio, ti sembra che le forze ti abbiamo abbandonato, ma ce la puoi fare. Una contrazione attraversata, è una contrazione in meno per poter conoscere il tuo bambino!”
È stato così ieri, lo è anche oggi e sarà lo stesso domani: la vita non si ferma per davvero e i bambini che continuano a nascere hanno bisogno di un mondo migliore, che sia sempre capace di raccontare emozioni.