“Non mi sembra vero che siamo già all’ultimo incontro di coaching, questo vuol dire che il Master di scrittura Terapeutica sta per finire. Solo Dio sa quanto l’ho desiderato e quali sforzi e sacrifici ho fatto per poterlo frequentare.”(Mercoledì 17 Febbraio dal Mio Diario).
Se mi rivedo all’inizio del percorso vedo una donna decisa ad ascoltare quella voce chiara (“Vai, fidati di te, iscriviti, questo corso ti sbloccherà, i soldi arriveranno, sei ancora ferma a quel nodo del 2014, è ora di scioglierlo, Sonia è la persona giusta”) e con il desiderio di mettersi in gioco, di provarci ancora a trovare la chiave per liberare il valore di me. Ormai la scrittura è diventata un’evoluzione della mia professionalità educativa. Mi sono iscritta al Master di Scrittura Terapeutica Metodo Scarpante cercando ancora una conferma, un percorso che mi fornisse un titolo in più.
Alla fine invece ho portato a casa, molto di più che un metodo: è stato un percorso trasformativo, l’occasione di prendermi cura di alcune voci ancora doloranti che ostacolano la realizzazione dei miei desideri e provare a dare spazio, calore e luce alla forza interiore che mi abita.
Se mi rivedo all’inizio del percorso vedo una donna decisa ad ascoltare quella voce chiara (“Vai, fidati di te, iscriviti, questo corso ti sbloccherà, i soldi arriveranno, sei ancora ferma a quel nodo del 2014, è ora di scioglierlo, Sonia è la persona giusta”) e con il desiderio di mettersi in gioco, di provarci ancora a trovare la chiave per liberare il valore di me. Ormai la scrittura è diventata un’evoluzione della mia professionalità educativa. Mi sono iscritta al Master di Scrittura Terapeutica Metodo Scarpante cercando ancora una conferma, un percorso che mi fornisse un titolo in più. Alla fine invece ho portato a casa, molto di più che un metodo: è stato un percorso trasformativo, l’occasione di prendermi cura di alcune voci ancora doloranti che ostacolano la realizzazione dei miei desideri e provare a dare spazio, calore e luce alla forza interiore che mi abita. Carissimo lettore, provo a sviluppare una fotografia in parole, cercando di raccogliere le perle che mi sono ritrovata in tasca, nate evidentemente da mesi intensi a scrivere lettere e dal confronto con il gruppo; perle come nuove consapevolezze, sguardi evoluti e tentativi di una metamorfosi interiore. Ti chiedo però di prenderti un pò di tempo. Questa lettura non può essere superficiale e veloce. Perdonami la schiettezza. Siamo abituati ad una velocità che però non fa della lettura un vero incontro con la nostra anima e non offre le condizioni per un ascolto attento a quel grido di vita che portiamo dentro. Ti invito a regalarti un tempo tutto per te, se vuoi tenendoti una penna in mano. Sono sicura che avrei rispetto attento di questo mio pezzo d’anima che metto tra le tue mani. Sono il frutto prezioso che ho raccolto da tutto il percorso, non è solo farina del mio sacco. Mi auguro che in questo racconto tu possa trovare delle parole che risuoneranno come lampi di luce. E chissà che leggendomi, non ti maturi l’idea che anche tu possa regalarti un gesto di cura verso la tua storia.
Nodo: quella maledetta incapacità di credere in me stessa
Partiamo da ciò che mi ha riportato da Sonia. Nel 2014, in quel seminario a Gorgonzola non ero riuscita a scrivere nulla, blocco, paralisi totale di quel maledetto nodo che aveva questo nome: Non ti vuoi bene! Sapevo che più che la mia storia, già ampiamente rivisitata con il lavoro dell’autobiografia prodotto dopo il Master in Scrittura Autobiografica con Duccio Demetrio, dovevo mettere le mani dentro la ferita che bruciava proprio lì, al centro di me stessa, tra il cuore e la pelle dell’anima, dove vibra il mio nome ma io non ne colgo il profumo, l’energia, la potenzialità. Già ad Ottobre, dopo 4 giornate di corso, in cui ogni parola di Sonia mi entrava nelle vene e la ricchezza e diversità di ogni storia mi infondeva coraggio, che tutti ce la possiamo fare, ho sentito crollare in me, quel muro di disistima. “Ci devi credere”, un ritornello, ma non è il solo, che mi ha martellato come un mantra. Forse crollare è troppo, ma sicuramente il muro si è crepato, ed ha permesso di lasciar entrare una piccola luce. Sarà un caso che da Novembre in poi mi sono arrivate 4 proposte di lavoro. Io ci ho visto, un filo segreto. Per poter accertare la veridicità di quel sentire profondo, di come le parole scritte e ascoltate avessero infuso stima e forza interiore, ci voleva la prova tangibile e reale dell’esperienza, per sgretolare i miei mostri interiori. In una parola: mettermi alla prova.
Coraggio e fiducia: due compagne imprescindibili
Durante il cammino ho preso ancora più consapevolezza di alcune carenze che mi lavorano dentro e contro il mio potenziale. La disistima, la perfezione e l’insicurezza. Credo che ognuno abbia i propri demoni sotterranei. Ma Sonia, e il gruppo stesso, mi hanno mostrato dove tenere lo sguardo. “Ho paura del mio potere, della mia luce, del mio potenziale”. Le ferite mi hanno resa la donna che sono ora. Adesso è ora di farne tesoro e opportunità per altri. Significa lavorare sul potenziale, sul desiderio e non sulla mancanza e sul limite. Crederci è davvero la grande sfida che mi attende.Pensare positivo diventa importante: posso farcela, ci credo, mi fido, agisco!
Errore: unico antidoto contro il perfezionismo
Questa credo sia stata la lezione più dolorosa. Non tanto capirla razionalmente ma lasciare che entrasse fino alle viscere, costringendomi ad un salto di qualità, ad un passaggio evolutivo. Ed anche ad una conversione di sguardo. In tutto il percorso ho visto davanti a me, sia quando dovevo scrivere che quando eravamo nell’aula virtuale, quella rappresentazione mentale con cui leggo quello che penso e che vivo. Quella pretesa di perfezione e di somma bravura con cui parto per ogni impresa. E a volte anche quel freno che non mi fa partire perché l’obiettivo a cui devo (e sottolineo devo) arrivare è sempre alto, pieno, sfinente. Quella catena pesante con cui fare i conti ogni volta che mi metto alla prova.
Chiamalo genitore autoritario, super io o demone, sta di fatto che questo percorso mi è servito per decidere che non potevo più tenerlo fuori dalla porta o ancora trattarlo come nemico da evitare.
Sbagliare serve, è fonte di crescita. Il mio valore e la mia capacità non diminuiscono secondo la quantità di errori. Non sono collegati come una proporzione. L’errore è vita. L’errore è propedeutico all’errare, cioè viaggiare, evolvere, comprendere. E tutto ciò che lo rende inaccettabile ha a che fare con una malsana educazione o forse una maschera di schemi mentali in cui mi sono imprigionata. Mettere in conto di sbagliare è necessario se si vuole migliorare in crescita e conoscenza di me, dell’umano, della cura.
Umiltà: indicatore di saggezza e apprendimento
Questa non è solo una parola che mi ha consegnato più volte Sonia, è una parola che lei incarna. Nel suo modo di condurre, di approcciarsi alle storia e di sviscerare i non detti o gli scritti, ho colto questa “aura”. Un sommo rispetto per tutto, per ogni singola emozione, per ogni briciola di silenzio o di lacrima, per tutto. Da qui ne ho dedotto che la sua umiltà si alleava alla parte più profonda, più nascosta, più vera di ognuno di noi. In questa estrema accoglienza, capace anche di restituire dei significati o delle aperture di senso, andava con delicatezza e garbo ma anche con maestria quasi divina, ad affacciarsi sulla soglia e portare lo sguardo lì, sul centro a volte ricoperto da erbacce e spine e melma, come una madre affettiva sa fare, come un’ostetrica. Umiltà, ascolto profondo e rispetto per tutta la storia, sono strumenti che innanzitutto ho visto agiti su di me e sul gruppo dalla conduttrice. Quanto è stato utile scrivere, prendere appunti, osservare anche come si comportava, come gestiva i vari momenti.
Ombra: mai più senza
Il suggerimento è stato di Antonella sulla scrittura di mia madre “Lei sembra che non abbia ombre”. Questo mi ha permesso di riconoscere una consapevolezza in più rispetto all’autobiografia dei 40 anni. In queste lettere del metodo Scarpante mi sono data il permesso di far emergere anche le ombre. Le ho intraviste, le ho appoggiate sul foglio, a volte mi sono fatta dei lunghi pianti mentre la penna scorreva. Non solo della mamma e del papà ma anche di mia sorella, di mio fratello, con mio marito e con me stessa in generale. Con mia figlia forse è ancora presto. Alle soglie dei 50 anni mi sembro più confusa che a 30. O forse non è tanto la confusione che ho riconosciuto, quanto il Mistero ingarbugliato e a volte indistricabile della Vita, mia e di altro. Il ruolo del dolore nelle storie ascoltate ed il valore del tempo: quanto ce ne vuole perché un nodo si sciolga, perché una pelle marcia decida di staccarsi definitivamente, perché un dolore si trasformi in spinta. Ringrazio l’ombra e spero di tenerla sempre vicino, d’ora in avanti, come una messaggera, un po’ strega e un po’ maga, a ricordarmi che le cose non sono solo mai come si vedono, ma nascondono spesso un’ombra, ed è quella la parte più divertente e inaspettata della vita, che ne fa un Mistero continuo e mai raggiunto.
Scrivere: almeno il 60% della cura
Questo è un altro frutto che reputo essenziale. Scrivo da quando sono bambina. E scrivo lettere da sempre. Ancora una volta, la conferma che scrivere già di per sé è terapia. Cioè darsi e scegliere quel tempo in solitudine e mettere per iscritto ciò che si muove nel profondo, raccogliere quel ricordo, o sviscerare quel tema o ancora raccontarsi per immagini, è un processo di autoguarigione. Che potenza la parola, e la penna quando sfiora il foglio, è già entrata nel labirinto del sommerso, e come un ago pesca, ricuce, affonda, libera.
E ho dovuto constatare che ho fatto una fatica immane a stare al passo con le scritture, sicuramente perché è conciso con l’arrivo dei progetti lavorativi, ma ammetto che sentivo delle resistenze molto forti. Lo scrivere perfettamente, il momento opportuno, la necessità di un tempo più adeguato, la fatica a gestire casa, lavoro, progetti e scrittura si sono presentati come delle scuse, dei freno a mano, ed ho quasi perso la voglia di scrivere, per non parlare del giudizio sulla forma e della mancanza di creatività. Un blocco vero e proprio. Non l’ho superato del tutto. Mi è servito portare il malessere nel gruppo e ogni volta sbloccare un meccanismo, dare voce al perché mi stavo negando e riconoscere la solita e consueta via di fuga. Nascondersi, svalorizzarsi, denigrarsi alla ricerca di un perfezionismo malsano. Invece no, sotto la guida di Sonia, rimettermi in gioco ogni volta, e vomitare al mattino presto le parole sul foglio, cercando ancora una volta la chiave di tanto masochismo. E vedermi da fuori, fare piccoli passi e riconoscermi cambiata. Scrivere ci tiene dentro il processo, camminando sull’attimo. La vera essenza è nascosta nell’oggi, come un filo rosso che si svela, scrivendo di oggi, in oggi. L’oggi che è stato la cura di ieri, l’oggi che è presenza, l’oggi che fa spazio al nuovo, al domani inatteso. Diveniamo nella misura in cui accetteremo che fra 10 anni le domande saranno le stesse. E’ un tormento da accogliere. E’ un’amante a cui tornare ogni volta, da cui cercare baci, a cui dare carezze. Come un fuoco, da tenere vivo. E’ una fame che non si esaurisce, è un anelito mai sazio. Scrivere è attraversare un cammino evolutivo e cercare il senso nascosto tra gli eventi. E’ ritessere la storia cercando il senso. Quando scrivo piano piano si dipana il nodo, e la storia come una matassa, mi restituisce un sentire profondo, un alfabeto di significato. Le parole scritte curano, è un processo continuo ed infinito .
Il valore terapeutico del Gruppo: uscire allo scoperto, prendermi il mio spazio, giocarmi, indossare nuovi occhiali
Sono onesta. Averlo vissuto sulla piattaforma on line non mi ha messo in difficoltà. Ho sperimentato che la terapia comincia da un mio primo passo di protagonismo, dal farmi vedere dagli altri e portare lì davanti allo sguardo di tutti, il mio spogliamento, la mia ferita. E’ successo quando ho letto la lettera a mia madre. Mi sono messa al centro. Non più la seconda, non più la gemella timida. Ed così è stato. Ognuno mi ha rimandato un aspetto, una pista di significato, una chiave con cui rivedere quel nodo materno che mi porto dentro. Parole come luce. Ho sentito nei rimandi la cura del senso. Non sono rimasta vittima del vomito emotivo. Dovevo passare da lì per far nascere un nuovo pezzo di me. E così è stato.
Sul palcoscenico anche se virtuale, ho preso il mio spazio e mi sono fatta vedere piangere, sono entrata fino in fondo al dolore, ho lasciato uscire ogni emozione senza paura di essere giudicata, mi sono permessa di smocciolare, di mettere a nudo il dolore, di piangere forte, di mettere le mani tra la testa credendo di svenire dal tanto male, di farlo uscire tutto, fino a sentire quella morsa allo stomaco e sapere che lo sguardo accogliente mi teneva, che gli altri in quel momento erano padre, madre, sorella, amico. Perché mi hanno permesso di essere quella che ero. Dopo la pausa la sensazione di liberazione e di svuotamento è stata palpabile in me. Ho sentito tornare un respiro libero come l’aria di montagna e una leggerezza, del cuore, simile a quando ballo la danza del ventre. Me lo devo ricordare quando nel gruppo succederà che qualcuno si permetterà con coraggio di darsi e fidarsi. Il dolore mentre esce si trasforma. E si impasta di nuovo materiale grazie al silenzio accogliente, all’abbraccio silenzioso, agli sguardi profondi che arrivano dentro, ai rimandi, alle parole che si ricevono. Si sta in un gioco di alterità. E mi sono sentita pienamente me stessa. Ed ho percepito che tutte le storie sono intrecciate. Che la mia richiama quella dell’altro e insieme, scambiandoci consapevolezze e pensieri, si va a lavorare sul nuovo, sul parto di sé. Questo processo è stato per me come indurre le doglie di un parto. Il gruppo come ho scritto mi ha fatto da grembo e da ostetrica. La fatica più grande la sentivo arrivare quando dovevamo chiudere, lì avrei voluto poter abbracciare, lasciarmi andare anche nel corpo e non solo in quello sguardo (e il quello schermo) che doveva contenere tutto ciò che accadeva in quelle 3 ore. Quante volte avrei voluto chiudere andando insieme a mangiare una pizza e bere una birra, e approfondire ancora di più i legami.
Una storia a spirale: più cresci e più scendi
Scrivere la propria storia, ma scrivere anche di temi gia affrontati, di aspetti triti e ritriti non è sempre uguale. Il movimento della spirale in questo percorso l’ho vissuto quasi materialmente. Un pomeriggio cercando un pezzo da mettere nel compito mi sono persa a rileggere i diari, tutti quelli che tengo gelosamente in due contenitori. Di primo acchito mi sembrava di girare sempre attorno agli stessi argomenti, invece poi rileggendo e scrivendo di nuovo, ho intuito che dietro c’ea il mio cammino evolutivo. I nodi sono quelli, le ferite anche, eppure quanto sono cambiata.
Loro non se ne sono andate ma è come se alcuni pezzi non vibrano più così forte, quanta vita ho attraversato, e sto accogliendo nuovi volti di me stessa e tentando di perdonare quella che sono stata.
Essenziale è stato anche il lavoro del gruppo, l’ascolto delle scritture dei miei compagni, e il significato cercato dietro alcuni racconti e accorgermi, che come me, anche i miei compagni nell’arco del percorso avevano tessuto consapevolezze importanti e sensi come cerniere che hanno permesso di chiudere aspetti del passato ancora palpitanti di sofferenza e amarezza. Ri-nascere è un atto sacro, lento e di cura. Respira Cri, sei dentro un movimento vitale. E’ tutta vita, ricordi il mantra di questi ultimi due anni, che tanto ti sei scritta e ripetuta.
Sabotatore interiore: qui c’è ancora da lavorare
Questo mi è chiaro. Chiudo il percorso soddisfatta ma anche consapevole che questa voce dentro di me è un campanello d’allarme a cui prestare cura e attenzione. Intuisco che ho bisogno di farmi accompagnare ancora per un pezzo di maturazione. Non sono così forte nel gestirlo, e spesso mi fa perdere energie inutili che potrei convogliare sul valore e sulla creatività e non sul preoccuparmi se vado bene o no. Sento che è legata anche ad alcuni aspetti di me su cui devo lavorare: la libertà dal giudizio degli altri, relazioni più autonome e meno dipendenti, un ascolto più vero dei miei desideri profondi e delle mie potenzialità, il coraggio di intraprendere strade nuove (anche del volto di me stessa), credere nella mia autodeterminazione, attraversare il tradimento di me stessa per una nuova nascita. Serve favorire e sostenere l’esplorazione e l’espressione delle diverse e sconosciute parti di noi stesse ed integrare le parti del sé dentro un’unità in continuo cambiamento. Il percorso mi ha sicuramente fatto fare dei passi in avanti, ma c’è ancora del lavoro da fare per trasformare la voce disconfermante in voce alleata e di incoraggiamento e fiducia.
Identità professionale: si costruisce nel tempo, come un abito su misura
e capire uno stile di conduzione, la professionalità di un metodo. Mi ha rincuorato circa il tempo che occorre per appropriarsi di uno stile, quanta esperienza e quanto confronto, anche lotte e momenti di difficoltà, e di solitudine. Piano piano, lungo il percorso, ero preoccupata di poter essere valutata sul metodo, nuovamente fuoriusciva la mia lacuna circa il non avere un titolo preciso per poter precisamente svolgere la mia professione di consulente di scrittura.
Il confronto con il gruppo su questo tema è stato arricchente e stimolante. Ne sono uscita con una mia lettura. Innanzitutto il punto di partenza è riconoscere quale è il desiderio profondo che mi abita circa la scrittura. A questo punto la professionalità si condisce non solo di competenze e contenuti (importanti ma non sufficienti) ma anche di empatia, capacità umane e di cura, umiltà e coraggio, disponibilità ad imparare da tutto, e centratura sulla propria creatività.
Ancora servono maestri e riferimenti a cui attingere in confronti e scambi. E Infine posso dire che serve tanta ma tanta ma tanta pratica (prove ed errori e rielaborazioni) per trovare la propria identità professionale. Davvero non si nasce imparati ma soprattutto è la vita (e gli altri che incontri nei laboratori o nelle consulenze) che ti restituisce il feedback per crescere e per poter sempre più affinare il modo con cui contraccambiare il dono di una passione che ho conosciuto e provo ancora sulla mia pelle: la cura dello scrivere.
Il tradimento come potere del cambiamento. il cuore per percorso. del doglie del parto.
La mia crisi è iniziata quando ho capito che dovevo tradire me stessa, quella me stessa che capivo non corrispondere più a quella che desideravo essere ma era una pelle troppo sicura per riuscire a toglierla. Mi sono venuti in aiuto gli attacchi di emicrania e dei forti sintomi. Quando si rinasce si vive un trauma e un tradimento, che bisogna imparare ad attraversare. Nel tradimento tocchiamo il fondo. C’è una morte interiore. E’ un grido la verità. E’ dolore senza pelle. Il tradimento è sempre un atto trasformativo. Alla fine la morte è un passaggio, l’arrivo di una nuova vita. Il mutamento di forma, da crisalide a farfalla. Alla fine crescere è lasciare andare, liberarsi di quello strato ammuffito e insecchito di me. Che cosa è importante tradire?
Noi siamo luce e ombra. Inizia a tradire quella parte di te stessa che ti sei costruita come immagine. Quella a cui gli altri sono abituati. Quella a cui io sono abituata. Quella con cui mi faccio amare, mi faccio accettare. Ma oggi c’è un’altra me che spinge dentro. A volte è anche l’opposto. Non sono solo quella che ho fatto vedere agli altri finora. Non sono solo quella che gli altri vedono o che fa comodo vedere. Non sono solo quella che sono stata. La paura, il giudizio tarpano questo tradimento. L’eros, il coraggio, la crisi sono contrazioni favorevoli. C’è una parte di me che non lascio uscire, una parte diversa, a volte l’opposto di quella che sono stata. Sono io la prima a temere questa nuova me. Il primo giudice sono io. Non si tratta di eliminare, di uccidere, di diventare altro, di rinnegare, di rimuovere. La libertà di essere comincia dentro di me!
Si tratta di dare il permesso ad una nuova me di nascere. E poi è un cammino di integrazione, di mediazione. Non facile. Ci saranno scosse di assestamento come ogni volta in cui il sistema cambia. Cambio io ma anche gli altri dovranno essere coinvolti in questo cambiamento. Dovrò mettere in conto che nasceranno scontri e reazioni diverse. Dovrò mettere in conto coraggio, pazienza e la fiducia nel bello che nasce. Ci devo credere perché l’altro potrebbe ostacolarmi in questo divenire, perché non è facile stare vicino a chi muta, in modo inconscio chiede anche all’altro di mutare. Ma insieme si può lavorare per qualcosa di bello.
La vita è un continuo mutamento. Certo come esseri umani non siamo amanti del cambiamento. Costruiamo la nostra forza nell’abitudine, nelle sicurezze mentali, nell’immagine con cui ci guardiamo e guardiamo gli altri e la vita e pensiamo di aver trovato un benessere, una pace, un equilibrio. Che sia propria “la morte” a liberarci dall’immobilismo e dalla rigidità dell’esistenza?
La morte, la malattia, la depressione non vanno viste come la fine, come qualcosa calato dal cielo. Potrebbero tenerci in uno stato di immobilismo al cui interno lavora un tumore che logora l’anima. Non è immediato intuire che invece “è roba nostra. Arriva da dentro di me. Dalla mia storia.” E’ dolore taciuto. Veste quella fame di libertà a cui ci sottraiamo o la scelta inconsapevole di stare al gioco della paura, della sfiducia, a volte il gioco più comodo o l’unico che abbiamo conosciuto o l’unico che siamo in grado di mettere in campo. Entriamo in una forza che ci paralizza, ci tira verso il basso. Ecco che allora la malattia, la depressione sono come delle scariche, diventano delle spinte per fare un passaggio, per aiutare una rinascita, per evolvere, per trasformarsi, per innovarsi.
Se dovessi trovare un’immagine per raccontarlo questo percorso di scrittura direi senza nessun dubbio, le doglie di un parto, che mi ha travolto e spinto fuori. Vedo la testa e quasi mi emoziono.
Grazie al gruppo che mi ha fatto da grembo e da ostetrica.
Siamo dei libri viventi
E chiudo caro lettore con questa citazione. “Eppure imparo più cose sulla natura umana dai romanzi che dalle creature in carne e ossa. Credimi, posso scorgere la grandezza e le miserie, le luci e le ombre di ciascuno, l’ambiguità, quanto buoni e quanto cattivi possiamo essere. Insomma, là dentro incontro la vita.” (Marcela Serrano) Amo scrivere ma anche leggere da sempre. E ogni volta mi commuovo quando finisco un romanzo o tengo nascosta nella tasca dell’anima, una poesia, letta ad alta voce nella mia solitudine in bagno, prima che cominci lo tsunami della giornata.
E chiudo caro lettore con questa citazione. “Eppure imparo più cose sulla natura umana dai romanzi che dalle creature in carne e ossa. Credimi, posso scorgere la grandezza e le miserie, le luci e le ombre di ciascuno, l’ambiguità, quanto buoni e quanto cattivi possiamo essere. Insomma, là dentro incontro la vita.” (Marcela Serrano) Amo scrivere ma anche leggere da sempre. E ogni volta mi commuovo quando finisco un romanzo o tengo nascosta nella tasca dell’anima, una poesia, letta ad alta voce nella mia solitudine in bagno, prima che cominci lo tsunami della giornata. La letteratura contiene già i vari percorsi, contiene mille strade, contiene non le risposte ma i mille percorsi che ogni uomo o donna potrebbe ancora attraversare. E leggendo mi dicevo: si gioca la vita in un tempo a noi sconosciuto. Ogni divenire ha la sua legge. Ogni persona scrive la sua irripetibile storia. Eppure ogni storia ci aiuta a cogliere, continuamente e senza sosta, un lembo della verità, una faccia del Mistero del divenire. E allora ho pensato: i laboratori sono dei libri viventi. Ci si aiuta a tessere con il male subito, sentieri di luce; ci si specchia l’un l’altro recuperando il proprio personale alfabeto; ci si sente parte di un unico abbraccio, quello solidale tra uomini e donne che guardano il cielo e cercano le stelle, che camminano tra la melma e raccolgono un fiore, oppure che hanno solo bisogno di essere guardati con uno sguardo nuovo. E si esce rafforzati che davvero nella narrazione c’è la forza della rinascita e gli strumenti per affrontare il parto, anche se il dolore a volte sembra così forte da accecare ogni volontà di amore. Anche se a volte scrollarsi l’armatura che ci ha sostenuto per tanto tempo è più difficile che affrontare il vuoto che ci attende. Anche se a volte torni al punto di partenza ed hai semplicemente capito (tra dramma e stupore), che perdonare la storia genealogica è frutto di un sacrifico, quello delle proprie attese, di illusioni e pretese legittime. E allora intuisci, con una morsa alle viscere, la via: non resta che consegnarti alla Vita (o Dio, o l’universo, o soffio chiamalo come vuoi), quella più grande, quella che tiene insieme tutto, che rimpasta il male e rompe catene di schiavitù; quella che ha scelto te (e tu non saprai mai il perché), come anello di congiunzione tra il prima e il dopo, per far fluire di nuovo la vita, la bellezza, il bene. Quella a cui non puoi non essere grata per il miracolo di cui ti ha reso protagonista: le tue ferite e il tuo dolore saranno feritoie da cui uscirà una linfa vitale per altri che come te dovranno imparare a passare dalla morte alla Vita.
E allora buon viaggio a te, con un foglio bianco, una penna in mano e tante lettere da attraversare. Non rimarrai deluso! Provare per credere.
Un caro saluto
Cristina
P.s: Se vuoi scrivermi cosa ne pensi, cosa ti ha mosso questo racconto, lo accoglierò volentieri e ti risponderò.