Il Problema del ricordo

Tempo di lettura: 4 minuti

I ricordi, i sogni, il trauma sono fatti della stessa sostanza. 

Esistono nella nostra mente come immagini fluttuanti che vogliono essere esplorate e contemplate attraverso il racconto.

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Ho sognato che mi erano caduti tutti i denti
ma la mia lingua sopravviveva per raccontare la storia. 
Perché io sono un distillatore di poesia. 
Sono una banca del canto. 
Sono una pianola in un casinò abbandonato sulla riva del mare
 in una densa nebbia che sta suonando ancora. 

Lawrence Ferlinghetti, poeta statunitense 1919

Ogni tanto mi metto a riordinare i quattro cassetti dell’armadio grande che sta in corridoio. Non vi dirò con quale frequenza faccio quest’operazione, in realtà, non necessaria. In quei quattro cassetti tengo custoditi alcuni oggetti appartenuti ai miei genitori: gli occhiali di mia madre, l’agendina del telefono di mio padre, alcuni dei suoi diari che non ho mai letto, fotografie, la patente di entrambi, lenzuola ricamate a cui mia madre teneva molto, il suo ditale e pochi altri piccoli ninnoli. 

Delle infinite cose che hanno toccato, usato, della miriade di oggetti che hanno corredato il loro vivere terreno, io ho tenuto solo quelle poche cianfrusaglie che occupano lo spazio di quattro cassetti nel mio armadio grande. Ora sono i miei oggetti. Ogni tanto mi siedo in terra, li dispongo tutti intorno a me, li spolvero, li guardo, li ripongo nello stesso ordine di prima; io però mi rialzo in disordine. 

Se fosse un film, sarebbe una scena piena di flashback con tanto di musica malinconica; ad esempio, l’ultima volta che ho toccato gli occhiali di mia madre, mi è venuto in mente quando, a otto anni, le davo la morte perché finisse di confezionare l’abito da fatina azzurro con le stelle di raso argentate che avrei indossato alla festa di Carnevale della mia migliore amica. Mentre era tutta intenta nel taglia e cuci tra tulle e nastrini, le giravo in continuazione intorno sorvegliando che non si distraesse, le stavo col fiato sul collo, la impacciavo nei movimenti tanto che a un certo punto, presa da una stizza incontenibile, mi diede uno strattone e le caddero gli occhiali. Quando si chinò per raccoglierli glieli calciai lontano, per dispetto. 

Eppure non è questa la storia che vorrei raccontarvi, o non è solo questa. 

Potrei dirvi di quando le scivolavano gli occhiali fin giù la punta del naso e io glieli mettevo su spingendoli nel mezzo con un dito oppure di quando raccoglievo mille fili bianchi d’imbastitura dal pavimento e le ricoprivo la testa giocando a fare i coriandoli o la neve. 

Vorrei raccontarvi di quanto fosse importante per me essere la più bella della festa una volta tanto, così quella stupida bambina avrebbe smesso di guardarmi in un certo modo, della mia gioia e della mia impazienza mortificate dalla sua insofferenza per quel nuovo faticoso compito, di come me ne sarei voluta fare un vanto di avere una mamma sarta e invece dubitavo di lei perché le tremavano le mani mentre tagliava il raso con una forbice arrugginita, che odiavo il suo viso afflitto, illuminato dalla lucina pallida della macchina da cucire.

Quello che vorrei raccontarvi sono le infinite storie che si intrecciano attorno a un vecchio paio di occhiali di cellulosa, memorie di eventi passati fatti di una materia ibrida che si compone nel mio presente e si mescola a una sostanza impalpabile che è l’esperienza delle continue rievocazioni di quegli eventi che fa inventare nuovi modi di raccontarli. Perché un ricordo non è un fatto in sé, è un evento dinamico, ciclico e rituale, iniziatico, un appuntamento con sé stessi che ha sempre carattere di novità. Potrei raccontarvi mille volte la stessa storia, ma non sarebbe mai identica a quella precedente perché io non sono la stessa ogni volta che ricordo. Chi sono ora cambia il mio ricordo. Chi sono ora cambia perché ho ricordato. 

Ricordare non è soltanto un’epifania estatica che squarcia la tenebra sul nostro passato, ma anche un assestato e composto contemplare le immagini che si presentano durante una seduta di spolvero di vecchi oggetti chiusi in un comò. Io ho bisogno di stare con gli occhiali di mia madre perché sono miei, sono una parte di me, appartengono più a me di quanto non siano appartenuti a lei. Sono i testimoni di un’esistenza che è la relazione (con lei, con le cose, col mondo), una cosa mobile che sembra aver vita propria e si dispiega nel tempo e nello spazio, fisico e interno, aumentando e diminuendo di volume, di intensità e di significati man mano che la mia capacità di accoglierla, seguendo le sue stesse tracce, aumenta e si affina. Io mi fido del mio ricordo e voglio stare con lui perché mi parla di me.

Ma perché l’Anima ha bisogno di tornare e ritornare a un fatto accaduto venti, trenta anni fa? 

Il problema del ricordare sembra porsi (anche) in una questione di conflitto temporale. 

Tornare con la mente al passato, sia stato esso un tempo dorato o macchiato di colpe e dolori, è una mera illusione perché il passato non esiste, non esiste più. Semmai è il passato che torna alla mente. Sembra un’ovvietà disarmante, ma riflettiamoci un attimo su: insomma, io non ho più otto anni da tantissimo tempo! L’orologio è impietoso e ha divorato me, mia madre e i suoi occhiali, il mio vestito e le stelle argentate. E dunque perché quella bambina non scompare dalla mia vista? Perché la sua immagine resiste e insiste nella mia mente? Perché ho, addirittura, bisogno di stare con lei, di soffocare nel suo umore nero, di imbrigliarmi la testa coi suoi fili bianchi? Ho piacere nel fare questo anche se mi fa soffrire, mi metto gli occhiali per vederla meglio. 

L’Anima vuole il dolore perché sono le ferite che ci hanno iniziato alla vita; sono il sale che dà sapore alla nostra esistenza, anche se brucia. E allora ritorna e ritorna a grattare proprio lì in quella cunetta dove il mare si è asciugato e ha lasciato una sostanza cristallina: il senso della nostra esperienza. 

Vorrei riportarvi alla bellissima poesia che vi ho proposto in apertura di questo scritto. Perché io sono un distillatore di poesia. Sono una banca del canto. Sono una pianola in un casinò abbandonato sulla riva del mare in una densa nebbia che sta suonando ancora. Sono le parole di Psiche nella bocca del poeta, un’eco infinita di immagini, sogni e ricordi che riverbera nella parola! Ma il poeta, sebbene sia un eletto, è un uomo che condivide con noi il bisogno di raccontare. Forse anche noi siamo poeti quando tessiamo le nostre trame mentre esploriamo il tempo e lo spazio della vita orientandoci coi ricordi come fossero stelle nel firmamento del nostro cielo. La cura è la storia che ci raccontiamo.

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Antonella D'Orlando
psicologa psicoterapeuta, esercita la professione nel suo studio di Napoli. Dedita da sempre per passione alla scrittura creativa, cinematografica e teatrale, si è formata alla scrittura terapeutica con Sonia Scarpante col desiderio di integrare nella sua attività professionale quello che ha sperimentato come un potente strumento di cura. Oggi conduce piccoli gruppi di scrittura autobiografica, espressiva ed epistolare nel suo laboratorio che ha intitolato Step – scrittura terapia psicologia.
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