Scrivo perché ho premura, perché ho paura, perché lo avevo promesso a mio figlio, perché non so quanto tempo mi rimane.
Scrivo da una postazione scomoda, sono inquieta, insicura, precaria; la mia intera vita è scomoda. Tuttavia sono viva, respiro, vivo.
Sono una sopravvissuta, per usare la definizione con la quale noi ammalati di cancro veniamo definiti nelle statistiche, “survivor”.
Ma io non sono solo sopravvissuta, per ora, al cancro, io sono sopravvissuta a una famiglia disfunzionale, invalidante, quella in cui sono nata e miracolosamente cresciuta, adattandomi logicamente a un contesto illogico e anormale.
Chi non conosce la grammatica degli affetti, chi è analfabeta dell’amore, non possiede i mezzi per impossessarsi della propria identità, questa mancanza sarà una voragine incolmabile, mai del tutto rimarginabile.
Terreno fertile per una malattia potenzialmente mortale.
Ho avuto un marito per circa 17 anni, misero tentativo di raffazzonare un qualcosa di simile a una famiglia, ho sposato un uomo le cui caratteristiche mi potessero garantire la continuità di un ambiente invalidante, squalificante, nella vana speranza di trovare la soluzione del problema alle radici della mia negata identità, volendomi caparbiamente illudere di poter un giorno provare l’ebbrezza di esistere, essere vista, essere voluta e anche persino forse amata.
Il tutto era chiaramente destinato al fallimento, alla ricerca della conferma della mia invalidità.
Ora ho anche ripreso a dipingere. Lo sport da sempre ha in parte salvato la mia vita, oggi pratico lo yoga, la meditazione, respiro, sto frequentando un corso per diventare insegnante di yoga, senza la pretesa di poter insegnare nulla a nessuno.