Sopravvivenza

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Spunto di riflessione: La scrittura come ancora di salvezza

Ho iniziato a scrivere compulsivamente durante la separazione dall’uomo che avevo sposato, anzi che avevo deciso di sposare, perché in effetti lui non ha mai deciso niente, non avrebbe mai manifestato l’intenzione di sposarci, se non fossi stata io a proporre l’idea. 

Non sapevo di poter scrivere, non conoscevo la potenza incontenibile di questo fiume in piena che senza preavviso, inaspettatamente ha sfondato gli argini, e si è manifestato con una violenza inarrestabile, dopo anni di silenzio, di annebbiamento psichico, di assenza dalla mia vita, che io per prima avevo tradito.

Scrivere, da quel momento era la mia unica ancora di salvezza, scrivevo a tutte le ore, di giorno e di notte, il mio sonno era frammentato e costantemente disturbato da brutti sogni, angoscianti, indescrivibili a volte anche a me stessa. Era come tentare di stare in equilibrio con i piedi appoggiati su un pezzetto di terra travolta e stravolta da un terremoto, il mio sisma interiore, stava emergendo tutto ciò che per tanti, tanti, anni avevo riposto negli angoli più remoti della mia mente e del mio corpo, ora non era più possibile tenere a bada i dolori, le delusioni, le violenze, le aspettative brutalmente negate, gli amori inesistenti, i sogni di gioia, gli affetti immaginati e travestiti da realtà, come tristi patetici pagliacci.

Scrivevo e scrivevo, in un dialogo immaginario che in realtà era un monologo, perché l’interlocutore non c’era, l’uomo che avevo voluto sposare non rispondeva, o nel caso si trattava di poche righe insensate e superficiali, lui non aveva tempo, la sua vita era già altrove e da tanto tempo, ciò che io scrivevo, chiedevo, domandavo, ciò su cui riflettevo, attendevo risposte, pretendevo ragioni ma anche ammettevo torti, veniva immancabilmente ignorato o squalificato, nella migliore delle ipotesi ricevevo risposte che non rispondevano a nulla. Ero sola, ero sempre stata sola e continuavo ad esserlo, ora però non potevo più evitare di guardare ciò che avevo sempre visto ma rifiutato di vedere.

Ho scritto centinaia di pagine, ho insultato, ho pianto tante lacrime che in passato erano state congelate, anche loro sono esplose improvvisamente, come la mia voce, come le mie urla, di rabbia e di dolore, l’urlo della frustrazione, della solitudine, del vuoto in cui mi trovavo, senza appigli.

Non credevo di poter essere un serbatoio di così tante lacrime, lacrime di paura della mia malattia, di terrore della morte, le avevo sempre ingoiate, negate, per apparire forte e rigorosa, dovevo, la mia vita era dovere; lacrime di profondissima tristezza, di solitudine, di disperazione nel buio totale, lacrime di smarrimento, non avevo più riferimenti, intorno a me c’erano solo macerie, io stessa ero frammentata, a pezzi sparsi anche troppo lontano, da apparire irraggiungibili e per sempre persi.

Senza nessun interlocutore. Non c’era mai stato nessuno infatti.

Parlavo da sola. Piangevo da sola, piangevo durante la notte e piangevo dopo un sonno disturbato, al risveglio la mattina presto, piangevo in un dormiveglia angosciante. 

Sopravvivevo da sola, come avevo sempre fatto.

Le parole scritte sono state la mia salvezza, mi hanno tenuta ancorata alla vita, alla percezione del tempo che altrimenti mi sarebbe facilmente sfuggita, le date erano importanti, rappresentavano una testimonianza, un tempo vissuto, tangibile in quanto scritto sulla carta. Le parole scritte erano gli unici miei testimoni.

Ho riflettuto sulla tortura, leggendo “Malgrado tutto – Percorsi di vita” di Miguel Benasayag che io stimo moltissimo, trovo che ci siano molte similitudini tra l’essere detenuto e torturato sotto un regime dittatoriale (con le dovute evidenti macroscopiche differenze) e l’essere cresciuti in un ambito di assoluta negazione, ancorché familiare; alla fine l’obiettivo è comunque toglierti riferimenti, valori, fede, convincerti di “non essere”, al punto che tu stesso giungi a dubitare della tua stessa esistenza, toglierti identità, toglierti sogni e desideri che non siano quelli imposti dal dogma della famiglia malata cui appartieni, il gruppo che impone un regime di fatto, come se tu essere umano fossi un oggetto e non un soggetto, come se tu non avessi più compleanni né un orologio che scandisca il tempo, perché perdi anche il conto dei giorni, sottoposto a veglia forzata, a ingerenza priva di accudimento, giorno e notte, luci artificiali sempre accese, puoi giungere facilmente alla pazzia, a dubitare di te stesso, ti chiedi se sei tu in realtà l’elemento sbagliato e arrivi a concludere che si certo deve essere così, sei tu sbagliato e la colpa di tutto è la tua inadeguatezza.

C’erano persone torturate che alla fine erano assolutamente convinte che il regime avesse ragione e non ricordavano nemmeno più vagamente per quale causa avessero combattuto.

Avevano perso definitivamente ragione e identità. A me è successo di nascere dove non avevo scelto di nascere, come succede a tutti, di venire in questo pianeta per mezzo di qualcuno che del tutto inconsapevolmente ti ci ha messo, senza poi assumersi le doverose responsabilità, senza attenzione, senza amore. Circostanze del tutto casuali.

Ho incontrato Sonia Scarpante alla presentazione del suo libro Pensa Scrivi Vivi, durante il Salone del Libro nel 2022, quando indossare la mascherina a protezione Covid-19 era ancora obbligatorio, si iniziava a intravedere però un’uscita dal tunnel, anche se quell’uscita poi abbiamo compreso, non sarà mai più del tutto aperta.

Ancora una volta qualcosa è cambiato per sempre.

In quel periodo ero così sopraffatta dal dolore e dall’evoluzione della mia malattia, la quale a nemmeno un anno di distanza dalla mia separazione, si era evoluta allo stadio metastatico, dopo più di dieci anni di cure ininterrotte, che sinceramente non mi accorsi quasi della pandemia, non mi resi conto di cosa esattamente stesse accadendo, dovevo solo sopravvivere e questa calamità era solo un altro dettaglio da infilare nelle mie giornate confuse e vissute dalla prospettiva di un altro tempo e un altro spazio. Da lontano, ricevevo solo un’eco incosciente.

L’incontro con Sonia Scarpante mi si è rivelato come una luce nel buio, uno spiraglio attraverso il quale ho percepito di non essere del tutto sola, la mia sofferenza la ascoltavo attraverso le sue parole, la riscoprivo come trasformata in un dono, una apertura verso una possibile rinascita attraverso l’appropriazione della mia vita, un possibile percorso evolutivo alla scoperta di me stessa, sepolta sotto un cumulo di macerie fumanti, incapace di muovere un dito, senza fiato, senza orizzonte.

Ho partecipato al corso breve di Scrittura Terapeutica tenuto da Sonia, sono state dieci ore nelle quali ho iniziato ad afferrare che ci si può salvare, è possibile conferire finalmente un senso alla nostra sofferenza, al dolore che altrimenti può restare sospeso all’infinito, senza mai acquisire un significato reale, una sua realtà vissuta e sofferta sulla nostra pelle, nel nostro corpo, nella nostra anima; tramite la scrittura è possibile raggiungere una maggior consapevolezza della nostra storia, della nostra esistenza vissuta, dei percorsi tortuosi e talvolta inspiegabili presi dalla nostra vita, dai rapporti con le persone che abbiamo incontrato, amato, odiato, temuto e subìto, spesso nostro malgrado, è possibile raggiungere una sorta di liberazione, come se le parole scritte su un foglio bianco portassero con sé il peso che grava sul nostro cuore, liberandolo.

Come cita l’illuminato Prof. Eugenio Borgna, e che Sonia ha più volte riportato alla luce, questa frase di Shakespeare: “Date parole al dolore, altrimenti il cuore potrebbe spezzarsi”.

Io mi permetto di citare Hernest Hemingway: “Non ci vuole niente a scrivere. Tutto ciò che devi fare è sederti alla macchina da scrivere e sanguinare”.

Grazie Sonia carissima.

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Angela Ultrocchi
Scrivo perché ho premura, perché ho paura, perché lo avevo promesso a mio figlio, perché non so quanto tempo mi rimane. Scrivo da una postazione scomoda, sono inquieta, insicura, precaria; la mia intera vita è scomoda. Tuttavia sono viva, respiro, vivo. Sono una sopravvissuta, per usare la definizione con la quale noi ammalati di cancro veniamo definiti nelle statistiche, “survivor”. Ma io non sono solo sopravvissuta, per ora, al cancro, io sono sopravvissuta a una famiglia disfunzionale, invalidante, quella in cui sono nata e miracolosamente cresciuta, adattandomi logicamente a un contesto illogico e anormale. Chi non conosce la grammatica degli affetti, chi è analfabeta dell’amore, non possiede i mezzi per impossessarsi della propria identità, questa mancanza sarà una voragine incolmabile, mai del tutto rimarginabile. Terreno fertile per una malattia potenzialmente mortale. Ho avuto un marito per circa 17 anni, misero tentativo di raffazzonare un qualcosa di simile a una famiglia, ho sposato un uomo le cui caratteristiche mi potessero garantire la continuità di un ambiente invalidante, squalificante, nella vana speranza di trovare la soluzione del problema alle radici della mia negata identità, volendomi caparbiamente illudere di poter un giorno provare l’ebbrezza di esistere, essere vista, essere voluta e anche persino forse amata. Il tutto era chiaramente destinato al fallimento, alla ricerca della conferma della mia invalidità. Ora ho anche ripreso a dipingere. Lo sport da sempre ha in parte salvato la mia vita, oggi pratico lo yoga, la meditazione, respiro, sto frequentando un corso per diventare insegnante di yoga, senza la pretesa di poter insegnare nulla a nessuno.
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